Si chiamano bufale, o “fake news”.

Sono fandonie messe in storia o notizia che girano online, create ad hoc per essere reputate vere.

Ecco perché c’è chi le scrive e come possiamo riconoscerle.

Cosa sono le bufale?

Wikipedia definisce fake news come “a website that publish hoaxes, propaganda, or disinformation to increase web traffic through sharing on social media”.

Imbroglio, propaganda, disinformazione, acchiappa click (fenomeno del clickbaiting).

Nel gergo italiano bufale.

Possiamo ricomprendere in questo insieme come una serie di strategie di comunicazione che hanno la caratteristica di contenere un qualcosa di falso.

Chiara Severgnini prova a dare una spiegazione al perché abbiamo italianizzato con bufala questo insieme e la cosa è alquanto interessante.

Perché si mette in giro una bufala?

Il metodo è semplice. Diffondere una notizia o una storia verosimile che vada a colpire emotivamente le persone. Con lo scopo della diffusione.

Meccanismo semplice che sfrutta il fatto che le persone tendono a fidarsi dei propri amici online, basta che qualcuno di cui magari ci fidiamo nella vista reale condivida sulla sua bacheca che siamo istintivamente portati a darvi credito.

Questo è stato confutato da uno studio del Pew Research Center che ha mostrato come i social network aiutino a sviluppare relazioni sociali, non solo virtuali, basate sulla fiducia.

Anche Edelman, che ha pubblicato i risultati del suo “Trust Barometer” (una survey annuale volto a verificare il grado di fiducia verso governi, aziende, organizzazioni non governative e media) ha confermato la tendenza a fidarsi più delle notizie condivise dai propri pari che dalla stampa. Il 71% si fida dei risultati dei motori di ricerca e il 67% dei social media, ma permane un 69% che si rivolge alla TV (dato influenzato dalla mancata considerazione dei minori teenager). I quotidiani si fermano al 45%, i magazine al 32% e i blog al 28%.

Alberto Magnani in un articolo de il Sole 24 Ore descrive come “Paul Horner, creatore di contenuti fittizi con tanto di pagina personale Wikipedia ha dichiarato al Washington Post di guadagnare 10mila dollari al mese da GoogleAdSense, con picchi di 10mila dollari al giorno per le storie più virali. Ed è ancora un’inchiesta di Buzzfeed ad aver rivelato che un centinaio di siti pro-Trump, molto attivi nel vivo della campagna elettorale, era in realtà amministrato da un gruppo di adolescenti residenti nella cittadina macedone di Veles. I fondatori, con età media di 16-17 anni, riuscivano a incassare «anche 5mila dollari al mese» dalla diffusione di contenuti smaccatamente favorevoli al tycoon attraverso siti che potrebbero sembrare americani come Conservative News (usconservativetoday.com) o World Politicus (worldpoliticus.com)”.

L’incasso chiaramente deriva da meccanismi “pay for click”: si guadagnano soldi dagli annunci posizionati sulla pagina, agganciandosi a varie piattaforme.

Come facciamo a riconoscere le bufale?

Fioccano i suggerimenti e mi permetto anche io di indicarne alcuni.

Sono quelli che utilizzo solitamente e che mi sembrano veloci ed efficaci. Lo faccio in modo schematico.

1 – Controllare la fonte

Quando troviamo una notizia sul web proviamo a guardare subito da che fonte proviene Guardare significa controllare bene se c’è una fonte. Se non c’è subentra il primo dubbio. Se c’è guardiamo bene al nome di questa fonte.

Può capitare che i siti truffa si mascherino dietro a domini simili a quelli che ad un’occhiata veloce ci possono sembrare attendibili perché riconosciuti.

Liberogiornale.com era un esempio (oggi dovrebbe essere sospeso) poteva far pensare che fosse il sito del quotidiano Libero e de il Giornale. Non lo era affatto.

Il Fatto Quotidaino è un classico esempio di ciò che dicevo qui sopra.

Non tutti ad un’occhiata veloce (qui sta l’inganno, che si approfitta del fatto che tutti noi spesso non abbiamo tempo e facciamo le cose in fretta e magari immondo superficiale) si accorgevano che non si trattava della testata originale.

Fa eccezione Lercio.it che è un misto di fake news ma a scopo di ironia e umoristico.

2 – Cerchiamo su Google

Guardata la fonte (o l’assenza della stessa) facciamo una “fatica” che tanto alcune di queste bufale ci chiedono di fare come call to action.

Copiamo un pezzo del testo ed incolliamolo su GOOGLE.

Vedremo tra i risultati se il tutto è frutto di una bufala magari passata e che viene poi riproposta come attuale.

3 – Controlliamo sui siti antibufala

Consultiamo direttamente i siti anti-bufala.

Ce ne sono tanti ed anche di costruiti benissimo.

Addirittura chi ha studiato estensioni del browser ad hoc (vedi Bufale.net).

Da parecchio tempo seguo questo utilissimo blog: http://bufalopedia.blogspot.it/

4 – Chiediamo conferma ad una persona esperta

Se proprio non vogliamo dedicare tempo a questa attività proviamo a chiedere a qualche amico o conoscente magari più esperto di noi nei temi espressi dalla probabile fake news.

Tre consigli, inoltre, sono riassunti nel video di Rudy Bandiera di cui suggerisco rapida visione: con il suo stile Rudy fornisce indicazioni semplici e molto utili.

Utilissimo anche il suggerimento di Francesca Sanzo (blogger e comunicatrice) sul suo profilo Facebook: “leggere il messaggio, scomporlo e analizzare ogni parola chiedendoci se in quel contesto abbia senso, sia pertinente, c’entri qualcosa o non si tratti solo di una super cazzola con scapellamento da qualche parte.

Una volta riconosciute le bufale cosa possiamo fare?

Anche in questo caso alcuni suggerimenti.

Nel dubbio MAI condividere il contenuto.

Le bufale si autoalimentano con lo “sharing”, la condivisione. E’ il loro pane.

Inoltre ne va della nostra credibilità.

Condividendo a nostra volta notizie false risulteremo meno attendibili, anche se lo facciamo in buona fede.

Chi non vorrebbe aiutare qualcuno con un click? Beh se ci pensiamo non è con una condivisione che possiamo essere di conforto o di aiuto.

Poi ci sono casi in cui magari invece l’eccezione conferma la regola. Ma stiamo generici. Evitiamo.

Segnaliamo e aiutiamo

Se siamo su un social, ad esempio, segnaliamo il contenuto come spam o falso. Tempestiamo di segnalazioni.

Se troviamo post di contatti a noi visibili che riportano la bufala…commentiamo con il link che evidenzi la natura fake della notizia o (in privato) segnaliamo al nostro amico/a che ha preso una cantonata.

Occhio alla “bolla”

Lo Stanford History Education Group ha condotto un’interessantissima inchiesta su un campione di oltre settemila ragazzi dai 12 ai 20 anni che ha evidenziato (come descritto da Repubblica) la loro “difficoltà nel distinguere contenuti comuni dalla pubblicità così come i problemi nel comprendere la fonte di un articolo”.

Non basta essere Millennials dunque per essere scafati.

Altrettanto interessanti le considerazioni della Professoressa Giovanna Cosenza sul suo blog: “delle chiacchiere su filtri bolla, post-verità e bufale, per dirla in termini spicci, non frega niente a nessuno. Per dirla in modo più elegante: di queste cose importa solo ed esclusivamente a coloro che stanno dentro al filtro bolla in cui si parla, appunto, di filtri bolla, post-verità e bufale. Detto ancora in altri termini: non è parlandosi addosso che si esce dalla bolla in cui ci si parla addosso.”

Beh trovo in effetti la considerazione alquanto vera.

In questi giorni ho letto molti pareri sul tema “fake” e bufale ma da blogger, comunicatori o giornalisti che sono molti dei miei contatti, con cui interagisco o che cerco maggiormente.

La spiegazione sta in questa bolla di cui parla la Cosenza.

Ognuno cioè vive la propria vita in un mondo fatto a misura di marketing che finisce per diventare costrittivo, ciò che Eli Pariser (Il Filtro) chiama la «bolla dei filtri». Un’isola di sole notizie gradevoli, attinenti ai nostri interessi e conformi alle nostre convinzioni (così cita testualmente una recensione de Il Saggiatore).

Difendersi dalle bufale è possibile.

Basta volerlo.

Non sono i social il problema, ma come li si usa.