Non si tratta di un ossimoro, o forse sì…

cos’è un linguaggio che non comunica?

La riflessione che vorrei fare parte da lontano.

Sin dai tempi della scuola (di ogni ordine e grado) infatti, ci hanno abituati ad un linguaggio formale, direi istituzionale.

La scrittura doveva essere la più verbosa possibile, ricca, ridondante.
Magari con tante forme passive ed avverbi talvolta “ammorbanti”.

Mi ricordo che il “dono della sintesi” è sempre stata una mia caratteristica, così gli/le insegnanti di turno mi sollecitavano ad aumentare il numero delle parole, sostenendo periodi lunghi piuttosto che troppo brevi, imparando l’uso di aggettivi ed avverbi adatti allo scopo.

Ho cercato di imparare, affascinato dal mondo della scrittura, trovando modalità di esprimere concetti abbondando con le parole per fare contenti Caio e Sempronio.

Così, quando ho iniziato a scrivere per lavoro ho utilizzato uno standard formale, corretto ma formale.

Non sarà quindi capitato solo a me pensare come estremamente naturale il linguaggio istituzionale, politico ed aziendale.

C’è un’abitudine talmente connaturale (oserei dire) che pensiamo che saper scrivere sia mettere in pratica tutto questo, ergo così facendo siamo in grado di comunicare.

Quando ho approcciato il mondo giornalistico c’è voluto un veloce sguardo a ciò che facevano i colleghi per capire in effetti che quel linguaggio a cui mi ero abituato non era efficace per quel mondo.

Così ho tramutato formalità in elementi essenziali.

Ma intanto mi dilettavo a scrivere contenuti per il web, osando nel mondo dei social che si stavano affacciando sulla scena.

Mi sono reso conto che la comunicazione efficace volesse un altro gergo ancora: più vicino a quello giornalistico che istituzionale (pensa alle 5 W ed alla comunicazione piramidale, ad esempio) ma che sicuramente non basta.

Eppure…

Se mi guardo in giro, se leggo testi di siti aziendali o associativi, zeppi di terminologia specifica e formale, trovo che si somiglino incredibilmente tutti, nonostante appartengano a settori completamente diversi.

Ad un certo punto (ed ancora oggi in molti casi è così) si è pensato che comunicare sul web volesse dire trasportare il linguaggio promozionale, pubblicitario ed istituzionale allo stesso tempo.

Contenuti zeppi di autoreferenzialità, di aspetti “gonfiati”, di elementi poco utili se non all’ego del proprietario del sito.

Trovo tutto questo una conseguenza di quanto ho descritto, ad esempio sulla mia persona.

Ci hanno abituati a questo.

Fai attenzione, però.

Non vorrei che ora tu pensassi che slang, volgarità, emoticons siano essenziali per questo “nuovo” (?) modo di comunicare.

Non è così.

Comunicare significa utilizzare un linguaggio comprensibile a coloro i quali stiamo parlando.

Un linguaggio quindi che si deve differenziare, che deve colpire nel cuore, nell’emotività dei nostri interlocutori, ma anche alla loro pancia, al loro portafoglio a volte.

Mi perdoneranno autorevoli professionisti ma non credo nelle specializzazioni di copywriting che oggi sembrano filiare a manbassa.

Credo che esistano tanti tipi di linguaggio che comunicano e che si possono adattare ai vari contesti, ma la valutazione che ne faccio è nei risultati: sono diretti, utili a chi ci dovrebbe ascoltare?

Oggi si definisce copywriting l’arte della scrittura efficace e del convincimento.

Secondo il Cambridge Dictionary chi fa questo lavoro è “Someone who writes the words for advertisements”.

Un “pubblicitario”.

Saper scrivere significa saper comunicare o saper vendere?

Per quanto mi riguarda comunicare può significare anche vendere, non c’è nulla di cui vergognarsi.

Ma non solo.

Se tenessimo solo questa accezione significherebbe che la scrittura persuasiva appresa dalla PNL o da altre scuole di pensiero sia l’unica possibile.

E che quindi anche la manipolazione truffaldina faccia parte di questo mondo.

Io non credo a questo assioma.

Penso, invece, che si debba comprendere tutto ciò che NON comunica, per poi cercare di ottenere i risultati percorrendo altre strade.

Siamo convinti che le persone, ad esempio, oggi non leggano e che i tempi di attenzione sul web siano quelli che avrebbe un pesce rosso.

Non discuto che possa essere così.

Faccio una riflessione, però.

Siamo circondati da testi lunghi, corposi e abbiamo capito che persino Google non penalizza il testo ampio.

Perchè?

Allora, quali sono le conditio sine qua non?

Le riassumerei in tre caratteristiche principali:

  • Qualità
  • Focalizzazione sui temi che interessano all’interlocutore
  • Linguaggio comprensibile, agile e coerente a seconda del formato e dello strumento

Se un testo è breve e scritto male o non adatto a chi lo legge è perdente in partenza, se è lungo ma attinente e di qualità comunica nel modo giusto.

Ma ci sono regole universali su lunghezza, formato, tipologia?

No, dipende dai contesti.

Quando la nostra comunicazione è di qualità, quando rispondiamo alle domande latenti o dirette dei nostri lettori/utenti/clienti e lasciamo loro qualcosa di interessante o utile allora non dobbiamo preoccuparci troppo della lunghezza o delle pseudo regole che trovi da chi ama le facili ricette adatte a tutti e tutte.

Io ad esempio faccio così: mi lascio trasportare dalla scrittura, cercando di avere in testa l’obiettivo e adattando quello che voglio dire al mio potenziale interlocutore.

Più lo conosco, più so come coinvolgerlo.

Non mi ritengo un copywriter della categoria X o Y (mal digerisco le tendenze che assegnano una specializzazione in questo campo), sono un giornalista ma più che altro cerco di comunicare, adattando forme e contenuti all’obiettivo, alla forma, al contesto ed all’interlocutore.

Forse per qualcuno scriverò in modo troppo “parlato”: ebbene è una scelta.

Se dovessi scrivere un romanzo o una monografia probabilmente non opterei per questa tipologia di scrittura, ma quando si vuole comunicare è necessario arrivare a concretizzare l’obiettivo.

Non scrivo per vendere, ma provo a scrivere per “coinvolgere“.