Tu chiamale se vuoi…emozioni

Negli scorsi giorni stavo guardando un video di Marco Montemagno  e una sua constatazione mi ha portato a dedicarci una riflessione.

Rifacendosi alla foto che ho messo come copertina dell’articolo, Montemagno la commenta così: “L’esperienza diventa un background”.

L’esempio è calzante. Gente che si fa il selfie con sullo sfondo Hillary Clinton.

L’immagine, scattata ad Orlando dalla fotografa ufficiale della campagna della Clinton, Barbara KinneyIl, è stata postata su Twitter il 25 Settembre 2016 dal fotografo e designer Victor Ng, che lavora nello staff della candidata democratica alle presidenziali USA.

Come scrive l’Huffington Post

i sostenitori di Hillary Clinton preferiscono trovare l’angolazione perfetta per una foto, piuttosto che guardare in faccia quella che potrebbe diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti. Meglio osservarla attraverso lo schermo, magari con qualche filtro, che rispondere al suo saluto.”

Lasciando da parte la politica, prendo spunto da questo evento per riflettere sul come davvero tutti i punti di vista si possano ribaltare quando la mediazione dei social network diventa l’esperienza e quello che stiamo vivendo realmente solo lo sfondo.

Dipendenza da smartphone o meno valutiamo quanto pensiamo a immortalare/immortalarci durante eventi o momenti particolari della nostra esistenza, piuttosto che a viverli intensamente per quel che sono. Sembra quasi più importate testimoniare la propria presenza e catturare il like o l’invidia altrui, che raccontarla a posteriori.

Mi ha colpito molto qualche tempo fa Kate Bush (che ad essere sincero non seguo troppo come artista) quando ha rivolto alle persone che avrebbero assistito al suo concerto un appello a non dedicare il loro tempo allo scattare foto o a fare video con “iPhone, iPad o fotocamere”.

Sostanzialmente, il messaggio chiede (pur ammettendo di “stare chiedendo tantissimo”), di partecipare per vivere un’esperienza intensa insieme, creando un collegamento non filtrato; il consiglio è quello di esserci per vivere e non per “documentare”.

Nella società dell’apparire più che dell’essere (osservazione che viene fatta dai più nostalgici sui tempi attuali) questi segnali di controtendenza sono perle abbastanza rare.
Non sono certo io un detrattore della tecnologia, tuttavia credo che la consapevolezza che tanto mi piace predicare agli altri, sia fondamentale applicarla in primis su me stesso.

E probabilmente in futuro prima di mettere dita alla camera sullo smartphone mi chiederò se sto vivendo e godendo appieno dell’attimo che sta passando e che non tornerà uguale mai più per una regola inequivocabile e valida per tutti.

E se potrò sopravvivere senza che in diretta i miei amici sappiano che la sto vivendo.

E’ molto semplice razionalizzare questi concetti e scriverli in modo analitico adesso, bisognerà mettersi alla prova dei fatti.

Voler apparire a tutti i costi è un problema di egocentrismo, di insoddisfazione o di insicurezza?

I like aumentano le endorfine?

Sono quesiti che almeno una volta nella nostra esistenza online dobbiamo chiederci.

Vedi, scrivere è una possibile soluzione.

Una soluzione quantomeno intermedia.

Vivo l’attimo, se posso l’immortalo per quello che è, poi quando ho incamerato le emozioni e il vissuto ci scrivo sopra e lo racconto.

Si tratta di scrivere non in “real time” o di fare “live blogging”, quanto invece di utilizzare la scrittura per far riemergere il nostro vissuto e condividerlo con altri. E i guru della comunicazione insegnano come in realtà tutto questo non sia affatto passato di moda.

Il blog è uno strumento che diventa importantissimo.

“da una intuizione individuale si passa ad una idea discussa e da una semplice osservazione personale si passa a un argomento pubblicamente dibattuto”  (Francis Jaurèguiberry)

In questo modo non rinunciamo al nostro apparire online e restiamo comunque testimoni di un qualcosa accaduto e vissuto.

Poi nessuno nega la possibilità di immortalare l’esperienza “live”, ma considerando realmente quello che sta accadendo e non facendo diventare il contesto l’esperienza vera ma, restituendo alle parole il loro significato, lasciare quel background davvero come retro, sfondo e non attore primario.